Si può paragonare la storia dell’Ordo cisterciensis, almeno nei suoi primordi, a un cammino di ritorno alle origini. Quando, infatti, Roberto di Molesme nel 1098 decise di fondare un nuovo monastero a Cîteaux egli sentiva il bisogno di riscoprire quel profondo senso del sacro che aveva dato impulso al monachesimo dei primi secoli. L’Abbazia cistercense di Casamari conserva ancora, vivida e intatta, questa dimensione di sobria ed essenziale spiritualità.
Beninteso, non che allora non esistessero già diffuse e operanti abbazie, anzi, i benedettini erano i custodi della tradizione e della scrittura cristiana medioevale da più di sei secoli. Essi annoveravano numerosi monasteri in tutta Europa tra i quali, all’epoca di Roberto, spiccava Cluny in Borgogna.
Tale Abbazia, sin dal 909, aveva dato vita a una congregazione detta cluniacense, che aveva avuto enorme seguito. Le ragioni sono da ricercarsi nel periodo di instabilità e corruzione che aveva coinvolto la Chiesa soprattutto nell’XI secolo: gli abati di Cluny furono coloro che più di tutti si opposero ai vizi morali di quel tempo, come la simonìa. Inoltre, i cluniacensi erano ben visti dal popolo poiché rispondevano al crescente bisogno di preghiere e di funzioni liturgiche, in un periodo di lotte feudali e di incertezze. Essi, in buona sostanza, così intendevano la regola di San Benedetto, la quale aveva guidato lo sviluppo del monachesimo in Occidente sin dal 534: Ora et labora, prega e, nel tempo che ti rimane, lavora!
L’avvento dei Cistercensi nella storia
Ciò nondimeno, già alla fine dell’XI secolo, l’ordine di Cluny iniziò a perdere consenso a causa delle eccessive ricchezze accumulate e dell’enorme potere temporale. Le medesime riflessioni smossero la coscienza di Roberto di Molesme. Quando il 21 marzo 1098 egli fondò il nuovo monastero a Cîteaux, insieme a ventuno confratelli, desiderava ardentemente di riscoprire la povertà evangelica e una dimensione più sobria dell’esistenza1. Erano questi, d’altronde, i principi del monachesimo delle origini. Il termine monaco, dal greco μοναχός, vuol dire solitario e ciò aiuta a comprendere lo spirito dei Padri del deserto che si ritiravano in luoghi impervi per distaccarsi dal mondo.
Il monastero cistercense come éremos
Non si potrebbe trovare miglior paragone per descrivere le intenzioni di Roberto di Molesme. Nella sua visione spirituale il monastero doveva sorgere in un luogo poco agevole, solitario e incontaminato: esso, cioè, rifletteva l’accezione di ἔρημος (éremos), deserto. In effetti, proprio così erano le paludi borgognone di Cîteaux, e poiché questo luogo era chiamato in latino Cistercium, i monaci che vi si insediarono vennero chiamati Cistercensi2.
Sebbene i Cistercensi nacquero come un ramo dei benedettini, se ne discostarono nettamente. Una delle manifestazioni più evidenti di questo distacco materiale e spirituale fu la scelta dell’abito: al nero dei cluniacensi si contrappose il bianco candido delle vesti dei cistercensi (tunica, cocolla e scapolare), simbolo di rinnovamento e di purezza. Anche la stessa regola di San Benedetto fu interpretata dando maggior attenzione al precetto del lavoro, in quanto il luogo scelto per il novum monasterium era quasi sempre da bonificare, disboscare e governare.
Le proto-abbazie dei Cistercensi
La sobria solitudine e la proposta di una nuova povertà cenobitica furono gli aspetti preponderanti del successo e dell’enorme favore che i cistercensi riscossero negli anni successivi alla loro fondazione. A Cîteaux i monaci aumentarono di numero in modo così rapido che ben presto si rese necessaria la fondazione di abbazie figlie. La tradizione vuole che nacquero in principio quattro proto-abbazie: nel 1113 sorse un monastero a La Ferté, nel 1114 a Pontigny, nel 1115 a Morimond e nello stesso anno nacque il cenobio di Clairvaux. L’Abbazia primigenia di Clairvaux, in Champagne, fu fondata da un nobile che solo due anni prima era entrato nella comunità di Cîteaux. Il suo nome, Bernard de Fontaine, fu presto tramutato in quello di Bernardo di Chiaravalle, santo e dottore della Chiesa.
San Bernardo di Chiaravalle
San Bernardo di Chiaravalle fu un acceso sostenitore del monachesimo cistercense, che contribuì enormemente a diffondere. Egli fu un instancabile predicatore del rigore morale e della povertà; mentre era in vita l’Abbazia madre di Clairvaux generò circa settanta monasteri filiali. Durante le sue predicazioni non mancò di rimproverare ai cluniacensi l’eccessiva opulenza e il benessere che caratterizzavano i loro monasteri3. A Roberto, suo parente prossimo, che voleva trasferirsi da Clairvaux a Cluny scrisse:
“Se occorressero per fare un santo pellicce morbide e calde; se ci volessero stoffe delicate e preziose, lunghe maniche e ampio cappuccio, una coperta di pelle di qualche animale e una morbida stoffa, che cosa aspetterei, io per seguirti?”
Bernard de Clairvaux, Lettera a Roberto, 1119
San Bernardo e le Crociate
Bernardo non si limitò alla sola amministrazione della sua Abbazia e alla predicazione evangelica, ma fu una figura di spicco soprattutto nelle questioni politiche del suo tempo. In primis fu uno dei più ferventi sostenitori delle crociate e la sua mediazione permise ai Templari di essere riconosciuti ufficialmente dalla Chiesa; durante il Concilio di Troyes del 1129 papa Onorio II concedeva all’Ordine la primitiva Regola, alla cui stesura aveva contribuito proprio San Bernardo. Nel De laude novae militiae ad Milites Templi il santo giustificava, da un punto di vista teologico, l’esistenza di una congregazione monastica armata attraverso la nozione del malicidio:
Invero, quando egli uccide un malfattore, non commette omicidio, ma malicidio, e può essere considerato il carnefice autorizzato da Cristo contro i malvagi.
Bernardo di Chiaravalle, De laude novae militiae ad Milites Templi
Per San Bernardo la missio in Terra Santa era un’opera di evangelizzazione necessaria: come Cristo aveva scacciato i mercanti dal Tempio, così i Crociati erano legittimati all’uso della spada. Per tale ragione Eugenio III, eletto papa nel 1145, affidò proprio a Bernardo il compito di predicare la seconda crociata.
Eugenio III era anch’egli un monaco cistercense ordinato, non a caso, a Chiaravalle. Questo fa comprendere il peso politico di San Bernardo, il quale aveva certamente contribuito all’elezione di un suo monaco al soglio pontificio. D’altronde, non era la prima volta che la sua mediazione si era resa necessaria per la definizione del successore di Pietro. In seguito allo scisma del 1130 Bernardo, infatti, si era adoperato per far riconoscere papa Innocenzo II.
L’essenziale e il sacro
Anche grazie alla predicazione di Bernardo i Cistercensi presero a diffondersi in tutta Europa. In Italia giunsero a Tiglieto nel 1120, dove costruirono l’Abbazia di Santa Maria alla Croce; l’Abbatia Sancte Marie de Morimundo nel 1134; nel 1135 fondarono l’Abbazia di Chiaravalle Milanese; l’Abbazia di San Galgano nel 1218; l’Abbazia di Fossanova nel 1163; dopo il 1140 si insediarono a Casamari; a Roma, nello stesso periodo, furono i fautori della costruzione della chiesa abbaziale e del monastero delle Tre Fontane; a Palermo, nel 1172, fu loro affidata la nascente Abbazia di Santo Spirito. Alla fine del XIII secolo, al culmine della loro espansione, i Cistercensi contavano più di cinquecento monasteri.
Un’architettura sobria
Nel corso del tempo essi ricevettero enormi donazioni e, in alcuni casi, l’esenzione dal pagamento delle gabelle. Ciò contribuì a fare dei Cistercensi uno dei più importanti ordini di capimastri e costruttori del Medioevo europeo, promotori dello stile gotico. Tuttavia, quello cistercense è un gotico povero, spoglio, essenziale. Bernardo statuisce nella sua Apologia ad Guillelmum Abbatem (1125 circa) che la sobrietà debba guidare la vita del monaco tanto quanto l’architettura. Ciò spiega la quasi totale assenza di decorazioni, fregi o di opere pittoriche nelle chiese cistercensi.
“Lasciamo stare l’altezza smisurata delle chiese, la loro esagerata lunghezza, la larghezza assolutamente superflua, gli ornamenti sontuosi, le pitture ricercate; cose tutte che, attirando l’attenzione di chi prega, ne impediscono il fervore […] accettiamo pure che ci siano nella chiesa tutte queste cose, perché, se sono nocive alle persone vane ed avare non lo sono per quelle semplici e devote. Ma nei chiostri, davanti agli occhi dei frati che leggono i sacri testi, che cosa stanno a fare quelle ridicole mostruosità, quella bellezza per dire così deforme e quella bella deformità?”
Bernardo di Chiaravalle, Apologia ad Guillelmum Abbatem, 1225
I monaci bianchi davano particolare risalto alla sola luce, simbolo della Trinità: il suo chiarore aveva il compito di riempire gli spazi e la volumetria, e di favorire la contemplazione del divino.
Il plan bernardin
Tutte le abbazie cistercensi si sviluppavano attraverso un consolidato schema costruttivo e funzionale, denominato pianta tipo (plan bernardin). Si trattava di una vera e propria cittadella monastica autosufficiente: la chiesa abbaziale, situata ad est, era preceduta da un atrio con portico e destinata esclusivamente alle comunità di monaci e conversi; il chiostro quadrangolare permetteva di accedere a tutti gli ambienti del monastero, tra cui il refettorio, la cucina, la sala capitolare e il dormitorio. Il capitolo generale dei cistercensi, inoltre, proibiva la costruzione di campanili e di torri giacché le loro abbazie dovevano sorgere isolate rispetto ai centri abitati.
L’Abbazia di Casamari, un esempio di architettura cistercense in Italia
Fulgido esempio di architettura cistercense in Italia è l’Abbazia di Casamari. Il Chartarium Casamariense di Gian Giacomo de Uvis attesta che intorno al 1005 fu fondata una primitiva abbazia dedicata a San Giovanni e San Paolo a Veroli. L’Ecclesia S. Johannis et Pauli sorse in prossimità del torrente Amaseno, sulle rovine di un santuario romano dedicato a Marte.
Da Cereatae a Casamari
Il luogo era conosciuto sin dall’antichità perché aveva ospitato il municipio romano di Cereatae4, dedito al culto della dea della fertilità agricola Cerere. Esso era stato anche la patria di Gaio Mario, homo novus e famoso console che avversò Silla nella guerra civile dell’88 a.C. Ciò dà ragione dell’odierno toponimo Casamari, vale a dire “casa di Mario”.
In realtà, la costruzione di un edificio monastico in loco viene fatta risalire più probabilmente al 1036 (Baronio, De Persiis, Longoria, Giraud), costituito dai seguaci del benedettino Domenico da Foligno. Circa un secolo più tardi, in una data compresa tra il 1140 e il 1152, papa Eugenio III affidò il monastero ai Cistercensi di Fontenay.
“nel 1143 i monaci neri erano diventati tanto indisciplinati, disonesti e dimentichi della salvezza della loro anima, che Eugenio III […] vi introdusse i monaci dell’ordine cistercense nell’anno 1152”
Gian Giacomo de Uvis, Chartarium Casamariense, XV secolo
I Cistercensi riorganizzarono il monastero secondo i dettami della loro regola monastica, in austerità e semplicità. Nel 1203 papa Innocenzo III inaugurò la costruzione di un nuovo complesso abbaziale, in stile gotico: consacrato nel 1217, esso è l’edificio che ancora oggi si osserva a Casamari. Il monastero ebbe un ruolo di spicco nella storia politica, economica e artistica di tutto il centro Italia, ricevendo enormi privilegi da parte di Federico II, che vi risiedette nel 1221. Il sovrano era molto legato ai Cistercensi; non solo egli richiese ufficialmente di divenire affiliato, le cronache attestano la data del 24 aprile del 1222, ma si dichiarò difensore dell’Ordine.
La chiesa abbaziale di Casamari
La facciata, in pietra chiara, in accordo con la sobrietà cistercense è spoglia di orpelli e di decorazioni. Superato l’androne di ingresso, il prospetto si presenta a capanna, con un atrio a tre arcate – due laterali a sesto acuto e quella centrale a tutto sesto – al quale si accede tramite un’ampia scalinata.
Il portale principale è abbracciato da sette fasce di archi strombati e da eleganti colonnine con capitelli provvisti di motivi fitoformi. La porzione superiore della facciata, cuspidata, ospita un rosone e due monofore a sesto acuto.
Gli interni della chiesa abbaziale, a croce latina con tre navate e sette campate quadrangolari, sono avvolti da un’atmosfera austera e mistica. È merito profondo della luce soffusa che filtra dalle vetrate gotiche di alabastro, collocate nelle monofore aperte lungo la navata centrale. La copertura è a crociera con volte a sesto acuto. Queste sono sostenute da possenti pilastri a fascio le cui semicolonne pensili, poggianti su mensole a semicono rovesciato, si raccordano ai costoloni degli archi traversi, evidenziando le linee di forza della struttura.
La navata centrale, di dimensioni doppie rispetto alle laterali, si chiude con un abside rettangolare provvista di rosone e monofore. Presso il presbiterio si innalza, invece, l’altare maggiore, sormontato da un ciborio in marmo del XVIII secolo. Indiscussa protagonista della chiesa è la monumentalità degli spazi, che paiono proiettarsi (e proiettarci) verso l’infinito, con uno slancio di verticalismo assoluto e trascendente.
Il chiostro
Il chiostro rappresentava il vero fulcro di tutta la vita monastica. Nella simbologia medioevale esso, di forma quadrangolare, era immagine del creato giacché il numero quattro richiamava l’universo stesso. D’altronde sono quattro i punti cardinali e le stagioni, quattro gli elementi naturali… Il chiostro riproduceva nel suo piccolo l’armonia del cosmo per mezzo dell’acqua che sgorgava dal suo pozzo, la terra coltivata, l’aria e la luce che ne permeavano l’atmosfera di mistica essenza. E tutt’intorno l’uomo, il monaco, che percorrendo i corridoi s’incamminava metaforicamente verso il tempo della salvezza. Ivi si svolgevano, infatti, le funzioni liturgiche che scandivano il ritmo della giornata, come la preghiera della compieta.
Il chiostro si snoda in quattro corridoi, coperti da volte a botte, che si aprono attraverso bifore con colonnine binate. Le colonne appartengano a tre distinte categorie stilistiche: a fusto liscio, a bande spezzate oppure tortili. Esse sorreggono graziosi capitelli con motivi fitoformi e, sebbene la regola cistercense vietasse le sculture, osservando attentamente si possono individuare alcune eccezioni. Tra i motivi vegetali si distinguono, infatti, pochi volti umani. È stato ipotizzato che si tratti delle rappresentazioni di Federico II di Svevia, con testa coronata, di Pier delle Vigne e dell’abate Giovanni.
Attorno al chiostro si affacciavano tutti gli ambienti funzionali dell’Abbazia: il dormitorio con le celle, la sala capitolare, il dispensarium (oggi adibito a refettorio), la chiesa, l’armarium, il locutorium e il calefactorium.
La sala capitolare e gli altri ambienti dell’Abbazia di Casamari
La sala capitolare di Casamari costituisce un piccolo gioiello dell’arte gotico-cistercense in Italia. Gli spazi prospettici si articolano in tre navate, in accordo al tipico modello ad quadratum, per mezzo di quattro pilastri a fascio polistili. Essi sorreggono eleganti volte a crociera ogivale, costolonate, che scandiscono nove campate.
Il corridoio di passaggio, molto ampio, che conduceva ai giardini e alle grange era chiamato locutorium, forse perché da esso l’abate assegnava il lavoro giornaliero. Era detta calefactorium la sala con il camino, ambiente riscaldato in cui i monaci si radunavano per gli uffici nei mesi invernali. Qui si scioglievano anche i colori che gli amanuensi utilizzavano nello scriptorium per la copia dei manoscritti antichi. L’armarium, infine, come suggerisce il termine stesso, era uno stretto vano in cui venivano conservati i libri impiegati per la liturgia dell’ufficio delle ore.
Samuele Corrente Naso
Note
- G. Piccinni, I mille anni del Medioevo, Bruno Mondadori, Milano 2007. ↩︎
- T. N. Kinder, I cisterciensi. Vita quotidiana, cultura, arte, Jaca Book, Milano 1997. ↩︎
- G. M. Cantarella, Il monachesimo in Occidente: il pieno medioevo (secoli X-XII), in La Storia, a cura di N. Tranfaglia e M. Firpo, Il Medioevo, vol. I, I quadri generali, UTET, 1986. ↩︎
- Strabone, Geografia. ↩︎